Supply Chain & Procument è la unit che produce annual e corsi di formazione per 25.000 manager dell’area Acquisti, Supply Chain & Operations. Gli appuntamenti più attesi sono il CPO – Chief Procurement Officer – forum che riunisce il network dei Direttori Acquisti e il Connected Manufacturing, evento di riferimento per l’industria Manufacturing 4.0.
TAG: Acquisti, Certificati di Origine, Dogane, Import-Export, Incoterms, Logistica, Manufacturing, Operations, Process Excellence, Procurement, Produzione, Global Supply Chain
Fatturato ed export in crescita, boom di specializzazioni all’università e
massime opportunità anche per giovani e donne. L’agricoltura piace e traina
l’economia italiana, sarà anche per l’idea sempre di moda della bella cornice
verde, lontana da caos e inquinamento.
Se una volta per gli europei c’era il sogno americano, la speranza di farsi da
sé in un mondo nuovo e pieno d’opportunità, oggi questo sogno sembra svanito:
causa crisi e globalizzazione ogni fuga pare inutile, o comunque molto
difficile. Il “green dream”, il sogno verde di ritorno alle origini contadine, è
invece ancorato su basi sempre più solide. Perché l’agricoltura è un business
quanto mai attuale e per molti la risposta a disoccupazione e licenziamento.
Crescita netta e record di esportazioni
L’agricoltura è da tempo l’unico settore in crescita. L’ultimo rapporto
Istat del primo trimestre 2013 sancisce il settore come unico in grado di
segnare sia un aumento del valore aggiunto in termini congiunturali (+4,7 %) che
tendenziali (+0,1 %), e questo nonostante il calo del 3,7% dei consumi
alimentari. Secondo lo Short-Term Agricultural Outlook 2014, ovvero il rapporto
sulle prospettive di breve termine, il raccolto di cereali italiani porterà le
scorte a crescere a fine anno al 12,2%, rispetto al 10,3% del 2013. L’export
potrebbe raggiungere livelli record (37 milioni di tonnellate). Anche la
produzione di carne di manzo e maiale è prevista in rialzo nel 2014. Il settore
lattiero-caseario è pure in crescita, ma il vero boom si attende per il 2015,
quando finirà il sistema delle quote latte e si avranno nuove opportunità di
esportazione nei mercati mondiali, in particolare per il latte in polvere e i
formaggi.
La vera opportunità sta nel bio
Nonostante la crisi, l’Italia registra un aumento dell’8,8% dei consumi di
prodotti biologici, secondo i dati dell’Associazione italiana per l’agricoltura
biologica (Aiab). Siamo primi in Europa per esportazioni, con quasi 50mila
operatori impegnati nella produzione, 1,2 milioni di ettari di terreno occupato
e un giro di affari complessivo di oltre 3 miliardi di euro. Comprano bio
italiano soprattutto i tedeschi, ma anche la domanda interna segna un tasso di
crescita paradossalmente più notevole durante la crisi economica (+7,8% della
media annua) che negli anni precedenti (+3% del 2008-2009). Il fatturato di
negozi specializzati, grande distribuzione, vendite dirette in aziende agricole,
gruppi d’acquisto, ristorazione e altri canali di filiera corta è stimato in
circa 2.011 milioni di euro. Lo conferma un’indagine Eurispes: se restano fermi
i consumi di alimenti tradizionali, crescono i biologici. Il 70% degli italiani
afferma di acquistare almeno il 20% di prodotti di origine biologica (di questi
il 71% lo fa per la salute, il 46% per l’ambiente, il 40% per il gusto, il 20%
per il benessere degli animali). Il 77,6% degli italiani sceglie “Made in
Italy”, e il 46,4% acquista spesso prodotti Dop-Igp-Doc.
C’è posto anche per le donne
Può darsi che l’agricoltura premi il merito più della tradizione, ma sta di
fatto che – come ricorda Coldiretti per la Festa dell’8 marzo – sono 227.894 le
imprese agricole guidate da donne in Italia, quasi una su tre (dati Unioncamere
del 2013).
I sostegni delle Regioni per le start-up agricole
Ma l’aspetto ancora più interessante di tutta questa storia è che
l’agricoltura è un’attività sostenuta. Molte regioni puntano ad agevolare
l’avvio di attività piccole o medie, che riguardino agricoltura o attività
affini, come viene descritto nel dettaglio a ogni link: Lombardia, Piemonte,
Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Umbria, Lazio, Puglia
Fonte: www.wired.it
Il ruolo delle catene globali di produzione nella trasformazione del modello di creazione del valore
A cura di
Daniele Langiu, Francesco Morello, Fabio Sdogati
Sono ormai passati quasi sei anni dal famoso 9 agosto 2007, giorno in cui BNP
Paribas ha annunciato la mancanza di liquidità di tre dei suoi fondi di
investimento, motivando tale scelta come la conseguenza necessaria della scarsa
liquidità in certi segmenti del mercato delle cartolarizzazioni statunitensi che
rendeva impossibile valutare correttamente certi titoli. Quest’annuncio, che ha
segnato l’inizio della crisi finanziaria statunitense, si è trasferito presto al
mondo delle imprese non finanziarie. In tal modo la crisi finanziaria è divenuta
crisi dell’economia reale dell’economia statunitense e, data l’elevata
connessione internazionale dei mercati reali e, ancor di più, dei mercati dei
capitali, la crisi iniziata negli Stati Uniti si è propagata a livello globale,
in primo luogo in Europa, ed in particolar modo tra i paesi dell’Eurozona.
La prolungata recessione che ne è conseguita ha alla sua base una
trasformazione del modello di accumulazione della ricchezza nelle economie a più
alto reddito pro-capite. Più precisamente, stiamo assistendo ad un processo di
deindustrializzazione e di finanziarizzazione di queste economie che ha luogo
tramite la concomitanza di alcuni fattori:
Al centro dell’economia reale c’è quindi un cambiamento paradigmatico
dell’organizzazione del processo produttivo. Fino alla metà degli anni settanta
abbiamo sperimentato un modo di produrre basato su un principio fondamentale: il
processo produttivo era integrato nazionalmente. Questo modo di produrre è
necessariamente entrato in crisi quando la riduzione dei costi di coordinamento
di fasi del processo produttivo ha permesso di allocare tali fasi all’estero. Il
processo che ha preso forma è quello della Frammentazione Internazionale della
Produzione.
Con la formazione delle catene globali di produzione, il valore aggiunto nella
produzione non è più direttamente associabile ad un unico paese. Il valore
aggiunto delle esportazioni di un determinato paese è ‘aggiunto’ non solo da
imprese del paese stesso ma anche da imprese localizzate all’estero. È possibile
osservare che per quasi tutti i settori e per quasi tutti i paesi, si sia
verificato un incremento della quota di valore aggiunto estero contenuta nelle
proprie esportazioni. Questo ad indicare che è in atto un processo di
allocazione internazionale della fasi del processo produttivo, il cui obiettivo
è far svolgere ad un costo relativamente più basso fasi del processo produttivo
prima svolte all’interno dei confini nazionali. In particolare sono aumentati i
beni intermedi importati sul totale dei beni importati.
A questo punto, viene da domandarsi:
Alla luce della nostra interpretazione della crisi, queste sono le
prospettive delineate.
In primo luogo, negli Stati Uniti, la ripresa in atto è debole e fragile, in
parte per la recessione in cui si trovano alcuni paesi dell’Eurozona e per la
debole e fragile crescita nei restanti paesi dell’unione monetaria, che finora
erano stati considerati “immuni” dai problemi specifici dei primi. La debolezza
della ripresa implica in primo luogo debolezza della domanda. Per le imprese ciò
è destinato a tradursi in due tendenze: concentrazione dei settori industriali e
ricerca di efficienza tramite innovazioni di prodotto e di processo; tra queste
ultime, l'ottimizzazione della supply chain su scala globale svolgerà
sicuramente un ruolo di primo piano e rappresenterà una delle principali fonti
di vantaggio competitivo.
La debolezza della domanda aggregata e la persistenza di un elevato tasso di
disoccupazione lasciano presagire che ci sia spazio per un intervento ulteriore
in termini di politica monetaria – non preoccupiamoci della crescita del livello
dei prezzi, dato che c’è così tanta capacità inutilizzata nel sistema produttivo
– e, soprattutto, per un rinnovato intervento di politica fiscale, volto a
stimolare la componente pubblica della domanda aggregata e ad accrescere
l’occupazione tramite delle adeguate politiche industriali. Per le grandi
imprese questo significherà un'inevitabile ingerenza nelle scelte strategiche da
parte dello stato, e per le piccole un diverso contesto di incentivi e vincoli
in cui operare le proprie scelte, in primo luogo quelle di
internazionalizzazione.
Inoltre, nonostante il rinnovato ruolo della politica economica,
l'interdipendenza dell'economia mondiale è oggi tale da non lasciar presagire
alcuna inversione di tendenza nel processo di globalizzazione in atto da ormai
diversi decenni. Qualsiasi scelta di politica economica dovrà ormai tenere
conto, oltre che delle realtà locali, anche delle implicazioni del modello
dell'impresa globalmente integrata, e i maggiori benefici di qualsiasi ulteriore
intervento governativo nell'economia toccheranno sicuramente proprio alle
imprese più internazionalizzate.
Infine, il processo di deindustrializzazione dell’economia statunitense e delle
altre economie a più alto reddito pro-capite evidenzia che per le imprese
industriali di tali paesi, se prima aveva luogo la competizione per allocare
fasi del proprio processo produttivo nei paesi a basso reddito pro-capite, ora
progressivamente la competizione è con l’emergente settore industriale di tali
paesi. Le implicazioni della crescita di un settore industriale nelle economie
emergenti da considerare anche come un’opportunità dal lato della domanda, dato
che, tramite l’industrializzazione di tali paesi, aumenta il reddito pro-capite
dei suoi residenti.
In questo scenario, dal punto di vista macroeconomico, le risposte dei
responsabili di politica economica hanno seguito due percorsi differenti: mentre
la politica monetaria è stata crescentemente e ininterrottamente espansiva sin
dallo scoppio della crisi finanziaria con manovre convenzionali (riduzioni dei
tassi di sconto) e non convenzionali (quantitative easing), i governi hanno
adotta una politica fiscale espansiva nei primi mesi della crisi e restrittiva
da fine 2009 in poi. Dal punto di vista imprenditoriale, è necessario, invece,
sottolineare che il processo di deindustrializzazione e finanziarizzazione delle
economie a più alto reddito pro-capite necessariamente sottrae risorse, in primo
luogo profitti, al settore industriale.
Tali profitti, che progressivamente vengono distribuiti agli azionisti o
utilizzati per l’acquisto di attività finanziarie, non possono essere più
trattenuti dall’impresa per essere investiti nuovamente in essa. Per continuare
ad essere profittevoli, è necessario internazionalizzarsi. La domanda a cui
rispondere non è “se internazionalizzarsi oppure no”, piuttosto la domanda è
“quando intraprendere un processo di internazionalizzazione”. I benefici di tale
processo sono duplici: riduzione dei costi tramite la frammentazione
internazionale della produzione e accesso ad un mercato in crescita, il che
corrisponde ad una domanda aggregata di beni e servizi in crescita.
Ai responsabili della supply chain spetta oggi più che mai il compito di
decifrare il contesto internazionale e di coglierne le opportunità, che pur in
questa prolungata Grande Recessione di certo non mancano.